Era lì, bloccata sul sedile di fianco, immobile, agghiacciata, rigida come una statua, non aveva neanche il coraggio di sentire il proprio respiro.
Avrebbe voluto scomparire, non essersi svegliata quella mattina, non aver risposto al citofono, non esserci mai andata, non essere mai vissuta.
Cosa sarebbe accaduto adesso? Un adesso che era già dopo. Come l’avrebbe toccata ancora? Fin dove si sarebbe spinto?
E se, fermandosi ad un semaforo, qualcuno avesse guardato dentro l’abitacolo? Lì dove lei non aveva il coraggio di guardare? Non l’aveva nemmeno sfiorata l’idea che avrebbe potuto essere la sua salvezza, ma solo la vergogna. Disgusto e vergogna, nemmeno per sè ma per quell’essere che aveva di fianco, viscido e molle.
Non avrebbe usato il termine “lui” per definirlo. Come se in quel momento, in quel preciso, terribile e orrido momento qualcosa di grande si fosse innalzato come ultima barriera in difesa e rispetto per l’umanità che anche là dentro si nascondeva.
Era una bambina, e certe cose ancora non le sapeva. Intuiva soltanto che non era bene, non era una bella situazione, per nessuno.
Certe domande sulla sua intimità non riuscivano ad offenderla, non ancora, la disgustavano. Era un disgusto fisico, tangibile, proprio come se le parole fossero state sporche, da non toccare. La stessa, identica sensazione che si prova nel mettere le mani nude nella spazzatura. Non una metafora ma la stessa, la medesima esperienza.
Suoni luridi, non più parole.
Eppure erano le stesse che descrivevano la delicatezza segreta della donna che sarebbe stata. Scoprire di schianto che qualcosa di lei poteva essere osceno. Non erano più le parole, ma lei stessa, lei: la malattia. Come poter distinguere ora l’innocenza?
Non pensava, non ne aveva il tempo. Anzi, il tempo, come i pensieri, era diventato di pietra, duro e pesante marmo. Freddo. Da far sudare le mani.
Aveva paura, aveva disgusto, aveva vergogna, vergogna di non essere più una bambina. Di essere nata femmina.
Eppure non era che una bambina.
Che strano però, non provava odio, quello no. E non l’avrebbe provato nemmeno dopo, nè mai. Poi, molto poi, sarebbero arrivati i giorni della rabbia, poi quelli della pena. Ma l’odio mai.
L’aveva ricattata promettendole regali, i regali che si fanno ai bambini, parlando di cose da bambini con quella faccia da ‘grandi’. Il ricatto è una cosa abominevole, lo riconosceva, sarebbe bastato quello per accendere il rancore. Ma no, nemmeno quello.
Da quel momento, da quel preciso momento però iniziò a imparare una cosa nuova: la pena. Quella cosa strana e calma che colora lo sguardo di tristezza e, nello stesso tempo, lo rende profondo e grande. La pena quella magnanima, quella che non conosce disprezzo o sentenza, ma che non giustifica.
La pena che rammenta la propria meschinità insieme a quella dell’altro. Ma questo sarebbe diventato chiaro molto tempo dopo, molto amore dopo.
In quel momento non era che all’inizio, era solo una bambina terrorizzata di dover mettere la mano nel fango dell’animo umano, di un corpo umano. Obbligata a toccare. Obbligata a farsi toccare. E nemmeno aveva dubbi che certe cose potessero aver a che fare con il vero amore. Niente avrebbe intaccato quella parola, nemmeno adesso. Amore, come una roccia si innalzava ben più forte di prima, Non c’era dubbio, nessuna confusione. Lo sapeva senza che nessuno glielo avesse detto. Mistero.
Lo sapeva che nell’amore, per amore, certi gesti si sarebbero trasformati dolcemente, avrebbero mostrato il significato di una grandezza, il segno di una bellezza ora deturpata ma non assente, mai.
Per amore quei gesti si potevano fare veramente, e per amore anche rinunciare a farli, ma solo per amore, lo stesso amore.
E in nome di quell’amore così desiderato, atteso e, tempo dopo incontrato, un giorno, tempo dopo, avrebbe trovato stampata accanto al pesante ricordo la pace di un perdono.