Archive for novembre, 2011

… e adesso lasciati guardare

Dopo la tempesta il vento,

il vento si placa e

largo l’orizzonte respira,

linea tracciata

dallo sguardo intero.

Calmo,

questo vento

che già penetrò nel profondo

abisso

dell’acqua scura,

che la turbò,

che la sconvolse.

Ora non più che un alito

di zagare e quiete profuma

e sfiora l’onda che riposa.

Dormi,

ti prego, e sogna

di me che ti vivo

in estasi accanto.

Sicuro come la realtà

Non ricordo, tutto e’ avvolto nella nebbia. Densa, biancastra, lattiginosa. D’altra parte e’ un sogno! Comunque… Eccomi in una stanza, dormo…. E’ la mia stanza. Mi rivolto nel letto e vedo una luce riflessa sullo stipite della porta. Avro’ lasciato il computer acceso. Mi rivolto. Apro un occhio. Perplessa. Immersa nel sonno, in un sonno perplesso. Mi volto ancora. No, e’ proprio una luce, e non e’ quella del computer, troppo….luce. E sento anche delle voci…. Mi alzo di scatto, cuore in gola, tutto e’ improvvisamente reale, no, non è reale, non sarebbe così incerto. Il respiro e’ corto, piedi scalzi, freddo «Chi e’?»
Sei occhi, sei piccoli occhi e qualche risata soffocata:
«Ah, sei qui? Scusa, non ti avevamo vista…»
Realizzo. Le figlie del vicino. Ma ne ha solo due, la terza chi e’? Ma come si permettono di portare un’amica senza dirmelo?
«Ma come siete entrate?» Sarebbe da chiedere… Ma e’ un sogno… E non lo domando, me lo figuro. Spariscono, restano le risate, il chiasso da bambini, ma loro spariscono. Come il sorriso del gatto di Alice. Il gatto sparisce, il sorriso rimane. Anche Alice sognava?
Be’ gia’ che sono in piedi, eccomi per strada. No, in un negozio, dal benzinaio, dove? Non lo so. Non so neanche cosa ho comprato. Sta di fatto che sto pagando. C’e’ sempre qualcosa da pagare a questo mondo, accidenti. Non trovo il borsellino, busta, carta, matita, rossetto, astuccio, astuccio, astuccio. Finalmente! Borsellino, carta di credito. Via. Mettere via in borsa e sparire. Dove vado? Non so, mi ritrovo a scendere da una discesa ripida, rallento, non sono da sola, qualcuno davanti mi fa fretta. Dobbiamo uscire. Ma da dove? Dobbiamo uscire insomma, e il cancello e’ ostinatamente chiuso. Abbiamo fretta. Ma perche’ cavoli!?
Odddio!! Ho addosso i pattini a rotelle! Mica posso correre uffa! Pero’ e’ divertente. Piano…. Piano… Pensa alle ossa, piano….passettino passettino arriviamo al cancello. Si potrebbe uscire facendo un po’ di contorsioni, e’ un passaggio quasi da gatti, piccola porta girevole ma….orizzontale. Piu’ facile no eh? Ok, ci sto, se si deve fare e facciamolo!
Passiamo a fatica e ci imbrattiamo di…. Spazzatura, si, spazzatura, quella umida. Sicche’ mi ritrovo con la testa piena di bucce d’arancia, mandarino…per lo meno e’ frutta di stagione, mani sporche di qualche intruglio non so cosa, ed e’ meglio non saperlo.

Ma ancora qualcosa accade. Stiamo salutandoci. Abbiamo finito? Finito che? Va bene, mettiamo le valigie nel bagagliaio. Cavoli! Le valigie! Ma io neanche le ho fatte! Tornare non si puo’. Dobbiamo partire. Va bene. Andiamo. Senza niente, andiamo. Tanto e’ un sogno! Nel sogno mi ripeto che e’ un sogno. Non sono molto persuasa, ma che posso fare? E’ l’ineluttabile travestito da dubbio.

Mi accorgo lentamente di essere sveglia. Non ricordo un accidente, solo uno strano senso di sicurezza: la realta’. Sollievo.

Violazione

Era lì, bloccata sul sedile di fianco, immobile, agghiacciata, rigida come una statua, non aveva neanche il coraggio di sentire il proprio respiro.

Avrebbe voluto scomparire, non essersi svegliata quella mattina, non aver risposto al citofono, non esserci mai andata, non essere mai vissuta.

Cosa sarebbe accaduto adesso? Un adesso che era già dopo. Come l’avrebbe toccata ancora? Fin dove si sarebbe spinto?

E se, fermandosi ad un semaforo, qualcuno avesse guardato dentro l’abitacolo? Lì dove lei non aveva il coraggio di guardare? Non l’aveva nemmeno sfiorata l’idea che avrebbe potuto essere la sua salvezza, ma solo la vergogna. Disgusto e vergogna, nemmeno per sè ma per quell’essere che aveva di fianco, viscido e molle.

Non avrebbe usato il termine “lui” per definirlo. Come se in quel momento, in quel preciso, terribile e orrido momento qualcosa di grande si fosse innalzato come ultima barriera in difesa e rispetto per l’umanità che anche là dentro si nascondeva.

Era una bambina, e certe cose ancora non le sapeva. Intuiva soltanto che non era bene, non era una bella situazione, per nessuno.

Certe domande sulla sua intimità non riuscivano ad offenderla, non ancora, la disgustavano. Era un disgusto fisico, tangibile, proprio come se le parole fossero state sporche, da non toccare. La stessa, identica sensazione che si prova nel mettere le mani nude nella spazzatura. Non una metafora ma la stessa, la medesima esperienza.

Suoni luridi, non più parole.

Eppure erano le stesse che descrivevano la delicatezza segreta della donna che sarebbe stata. Scoprire di schianto che qualcosa di lei poteva essere osceno. Non erano più le parole, ma lei stessa, lei: la malattia. Come poter distinguere ora l’innocenza?

Non pensava, non ne aveva il tempo. Anzi, il tempo, come i pensieri, era diventato di pietra, duro e pesante marmo. Freddo. Da far sudare le mani.

Aveva paura, aveva disgusto, aveva vergogna, vergogna di non essere più una bambina. Di essere nata femmina.

Eppure non era che una bambina.

Che strano però, non provava odio, quello no. E non l’avrebbe provato nemmeno dopo, nè mai. Poi, molto poi, sarebbero arrivati i giorni della rabbia, poi quelli della pena. Ma l’odio mai.

L’aveva ricattata promettendole regali, i regali che si fanno ai bambini, parlando di cose da bambini con quella faccia da ‘grandi’. Il ricatto è una cosa abominevole, lo riconosceva, sarebbe bastato quello per accendere il rancore. Ma no, nemmeno quello.

Da quel momento, da quel preciso momento però iniziò a imparare una cosa nuova: la pena. Quella cosa strana e calma che colora lo sguardo di tristezza e, nello stesso tempo, lo rende profondo e grande. La pena quella magnanima, quella che non conosce disprezzo o sentenza, ma che non giustifica.

La pena che rammenta la propria meschinità insieme a quella dell’altro. Ma questo sarebbe diventato chiaro molto tempo dopo, molto amore dopo.

In quel momento non era che all’inizio, era solo una bambina terrorizzata di dover mettere la mano nel fango dell’animo umano, di un corpo umano. Obbligata a toccare. Obbligata a farsi toccare. E nemmeno aveva dubbi che certe cose potessero aver a che fare con il vero amore. Niente avrebbe intaccato quella parola, nemmeno adesso. Amore, come una roccia si innalzava ben più forte di prima, Non c’era dubbio, nessuna confusione. Lo sapeva senza che nessuno glielo avesse detto. Mistero.

Lo sapeva che nell’amore, per amore, certi gesti si sarebbero trasformati dolcemente, avrebbero mostrato il significato di una grandezza, il segno di una bellezza ora deturpata ma non assente, mai.

Per amore quei gesti si potevano fare veramente, e per amore anche rinunciare a farli, ma solo per amore, lo stesso amore.

E in nome di quell’amore così desiderato, atteso e, tempo dopo incontrato, un giorno, tempo dopo, avrebbe trovato stampata accanto al pesante ricordo la pace di un perdono.

Adesso è

Fotografie

mi mettono al tappeto,

tu mi abbracciavi

con cento sguardi e un sorriso

ora dove sei

che ti ho perduto ieri?

Fotografie

in fila indiana

giocano a fare

il film della vita.

Burle.

Da che passato è passato

resta solo

un adesso.

Salutami i tuoi sogni,

che qui si fa

per vivere.

E questo è tutto.